In scena una donna, Lei, che indossa una tuta da infermiera per la protezione dal contagio da Covid. Lei si muove all’interno di un piccolo cortile di una struttura ospedaliera. Un luogo vitale dove la donna cerca rifugio per rifocillarsi dall’intensa attività che è chiamata quotidianamente a svolgere. Lei è stanca, provata. Amareggiata. Si lascia così andare a un racconto che diviene l’atto di accusa di milioni di persone che, negli ultimi 20 anni, dieci in particolare, hanno visto crollare, a causa della globalizzazione, quelle certezze sulla quale aveva/no costruito una vita, un’esistenza intera. Un progressivo scivolare nel precariato, se non nella miseria nell’ambito di un sistema sempre meno attento alle istanze sociali e sempre più chiuso nell’assoluta autoreferenzialità: il sovversivismo della classe dirigente.
Le sue parole, allora, sono sentenza, inesorabile condanna nei confronti di un’élite politica, sociale, finanziaria, intellettuale il cui fallimento è nei fatti stessi delle cose.
Una condanna implacabile e, in quanto tale, senza appelli.